Troppo Bravo per Vincere ?
Troppo bravo per vincere?
Nella vita di tutti i giorni, essere persone corrette, rispettose, educate e attente agli altri non è solo un segno di maturità, spesso anche segno di gentilezza, delicatezza d’animo e capacità di osservare il mondo con sensibilità. Sono qualità preziose, che ci fanno crescere in modo armonioso e ci permettono di creare relazioni solide e affidabili.
Nello sport, talvolta, queste stesse qualità – quando si irrigidiscono o diventano un “modo di essere sempre e comunque” – possono trasformarsi in una gabbia invisibile. Non perché ci sia qualcosa di sbagliato nell’educazione ricevuta, anzi: spesso i genitori trasmettono ciò che hanno imparato e ciò che ritengono utile per la vita, con amore e buona fede. Può accadere, tuttavia, che un bambino molto rispettoso, molto attento a “fare bene”, cresca interiorizzando un modello di comportamento che nella quotidianità funziona, mentre nella performance rischia di diventare troppo stretto.
Gli atleti cresciuti così diventano profondi, affidabili, costanti: quelli “da spogliatoio”, di cui ti fidi e che come allenatore sei felice di portarti in trasferta. Quando arriva il momento della gara può succedere qualcosa di sottile: quel desiderio di essere corretti, gentili, “in equilibrio”, può trasformarsi in tensione.
Da dove nasce questa tensione?
Nasce dal conflitto tra ciò che sentono dentro e ciò che credono di “dover” essere. Lo sport chiede presenza, istinto, spontaneità del corpo, libertà di sbagliare, libertà di spingere, libertà di occupare spazio. Se un atleta ha imparato fin da piccolo che la rabbia va nascosta, che occupare spazio è rischioso, che essere molto intensi può disturbare o incrinare le relazioni, allora, nel momento in cui dovrebbe attivarsi, il suo sistema interno va in tilt: una parte vuole fluire, l’altra vuole contenersi.
Qui nasce un altro malinteso importante: la confusione tra aggressività sana e rabbia “negativa”.
Molti ragazzi crescono con una sorta di immagine stereotipata della rabbia: qualcosa da evitare, da soffocare, perché “non sta bene”, “non è educata”, “non è da bravi bambini”. Per questo, da adulti, fanno fatica a distinguere la rabbia distruttiva dall’aggressività funzionale, quella che nello sport non solo è utile, ma è proprio una fonte di energia, direzione e coraggio.
Il passaggio chiave, quindi, è imparare a contattare questa energia interna senza spaventarsi, senza scambiarla per qualcosa di pericoloso. È un’abilità che si costruisce: sentire il corpo che si attiva, lasciare andare la tensione, usare il respiro, piccoli gesti, routine simboliche o rituali di concentrazione per entrare in quella presenza viva e piena che ti mette in gara “con te stesso”, prima ancora che con un avversario.
L’educazione, la gentilezza e la misura restano qualità preziose, ma trovano il loro equilibrio quando riescono a convivere con grinta, coraggio e libertà. È questo il cuore della crescita personale e sportiva: riconoscere quando un tratto di sé è una risorsa e quando, invece, rischia di diventare un limite.
Non si tratta di rinnegare la propria storia, né di cambiare ciò che di bello ci abita. Si tratta di integrarlo. Di includere nuove parti di sé – più vitali, più presenti, più autentiche – così da non essere semplicemente “corretti”, ma interi.
Nello sport, come nella vita, non vince chi è perfetto: vince chi è vivo.













